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sabato 30 giugno 2018

A Toronto il supermercato dove si paga solo quello che si può

Un'immagine del nuovo supermercato di Gordon
Arriva dal quotidiano La Repubblica questa interessante notizia riportata in un articolo di Siria Guerrieri, in cui si racconta l'iniziativa di uno chef canadese, Jagger Gordon, che ha deciso di aprire a Toronto un particolare supermercato, in cui i più poveri possano comperare quanto serva loro, pagando solo ciò che in effetti dispongono. La formula è quella del "pay-what-you-can".

Toronto, il supermarket dove il cliente prende quello che vuole ma paga quello che può
Canada: l'iniziativa di uno chef stellato per combattere la fame e ridurre gli sprechi alimentari

di Siria Guerrieri

A Toronto, in Canada, apre il supermercato dei sogni: si entra, si riempie il carrello con ciò di cui si ha bisogno, e una volta arrivati alla cassa si paga solo quello che si può. Anche nulla, se non si ha un conto in banca e si è privi di denaro.
È il primo supermarket del “paga quello che puoi”, nato per promuovere un’etica del consumo alimentare fuori dalla logica del profitto. Un’iniziativa dello chef Jagger Gordon, stella della cucina canadese, che contro ogni criterio di mercato ha lanciato la nuova idea di “spesa” alimentare: arrivati in cassa si paga in base alla propria capacità economica. Un successo immediato, con oltre 200 clienti che già il primo giorno hanno riempito i corridoi tra gli scaffali del super.
L’idea di aprire l’originale market è nata dalla constatazione che in Canada un bambino su quattro soffre la mancanza di cibo. “Me ne sono reso conto per la prima volta – racconta Gordon al Global Citizen - quando mia figlia, che era andata a una festicciola di classe con pigiama party a casa di un compagno di scuola, è tornata a casa la mattina seguente prima del previsto. Il motivo: a casa dell’amichetto non c’era cibo per fare colazione. Dati alla mano, ho scoperto che si tratta di una piaga diffusa in tutto il Paese”.
Le cifre sono impressionanti: in Canada 4 milioni di persone, tra cui un milione e mezzo di bambini, soffre la fame. Contemporaneamente la quantità di cibo che finisce nella spazzatura a causa di sprechi alimentari - ma anche di abitudini sbagliate nella catena che porta gli alimenti dal produttore al consumatore in cui il 70% di frutta e verdura viene scartato solo perché di forma e aspetto non conforme agli standard - raggiunge ogni giorno le tonnellate.
Una contraddizione stridente: se in una casa di canadesi su otto si soffre quotidianamente la fame, al tempo stesso nella catena della distribuzione cibo perfettamente commestibile viene buttato via. E così Gordon ha iniziato un ciclo virtuoso: in accordo con produttori e altri supermercati raccoglie frutta e verdura, buona ma fuori calibro, che altrimenti sarebbe finita nella spazzatura, e la mette a disposizione nel suo supermercato. Dove ognuno paga in base alla propria disponibilità economica: i clienti sono incoraggiati a prendere dagli scaffali solo quello di cui hanno effettivamente bisogno, e a pagare per quello che possono. 

venerdì 29 giugno 2018

Islanda, troppo turismo: è colpa di Justin Bieber

Un suggestivo articolo de Il Giornale parla dell'Islanda e di come il giovane cantante canadese Justin Bieber l'abbia inconsapevolmente messa in... pericolo. Vi propongo alcuni stralci dell'articolo di Marzio G. Mian.

L'Islanda verso il collasso «È colpa di Justin Bieber»
Troppi turisti, poche strutture e natura a rischio. Accuse al video della popstar girato fra i ghiacciai

di Marzio G. Mian

"Non si sente più parlare islandese per le strade, è un suicidio, altro che Venezia. Quest'estate sarà la mazzata finale", dice Edward Hujbens, professore di geografia umana a Reykjavík. È la famosa invasione dei turisti in Islanda, lo scorso anno 2,5 milioni di arrivi in un'isola abitata da 346mila persone. La previsione è che entro ottobre si superino i tre milioni, uno tsunami. Le entrate dal turismo, circa 10 miliardi di dollari nel 2017, sono diventate la prima voce del PIL, doppiando quelle dalla pesca, una sciagura per l'identità nazionale, una benedizione per le casse dello Stato dopo il crac finanziario seguito alla crisi del 2008.
Per gli islandesi è stato un decennio folle, in linea con il loro carattere spregiudicato dettato da una natura così creativa da incastrare i vulcani dentro i ghiacciai. Prima della crisi era il terzo paese più competitivo al mondo, reddito medio 65mila dollari l'anno. La chiamavano la 'Tigre Boreale'. Solo vent'anni prima era il Paese più povero d'Europa, un luogo conosciuto solo come avamposto americano della Guerra Fredda. Eppure l'Islanda è l'unico angolo del pianeta a non aver mai conosciuto l'analfabetismo, i vichinghi arrivarono con un libro sotto il braccio. Tutti parlano l'inglese, ma sono in grado di leggere le saghe islandesi scritte mille anni fa da Erik il Rosso in persona... Poi è venuto il crollo, conti in banca evaporati in una notte. Si è scoperto che erano tutti debiti, 160mila euro per islandese. Le Range Rover ribattezzate Game Over... Secondo Einar Torfi Finnsson, responsabile delle guide alpine, ci sono state quattro fasi prima dell'invasione: la svalutazione della krona dopo la crisi, l'apertura di alcuni voli low cost, l'esplosione del vulcano Eyjafjallajökull nel 2010 che ha offuscato i cieli di mezzo mondo ma anche scatenato la curiosità internazionale per l'Islanda.
"E poi è arrivato Justin Bieber, è Justin Bieber che ci ha rovinati", dice Einar. La popstar canadese nel video "I'll Show You", (450 milioni di visualizzazioni), si mostra mentre rotola sui licheni, si bagna nell'acqua dei ghiacciai in discioglimento, s'affaccia sul baratro tra le scogliere, dando l'idea che in Islanda si può fare un tuffo 'into the wild', dritti nel Pleistocene. "È stato l'inizio del disastro", conferma Rannaveig Olafsdottir docente di sociologia del Turismo a Reykjavík. "Non c'era nessun piano, nessuna infrastruttura, nemmeno bagni sufficienti. I porti non sono adeguati alle navi da crociera, e le navi non sono adatte a queste latitudini, è un groviglio d'irresponsabilità incrociate, prima o poi succede una tragedia. Tutta questa gente che arriva pensa di vedere l'ultimo scampolo di Natura selvaggia prima che sparisca, e così contribuisce a distruggerla"... Certo, molti villaggi abbandonati con la crisi della pesca e molte fattorie in decadenza tornano a vivere perché i giovani aprono ristoranti, attrezzano alloggi e avviano aziende per le escursioni. Gira tanto denaro. "Ma stiamo perdendo l'anima, il senso di essere islandesi in un mondo globalizzato, quello spirito che ci ha creati in qualche modo speciali e misteriosi", dice Edward, il professore di geografia: "La prossima vittima del Turismo nel Grande Nord sarà la Groenlandia, ma noi continuiamo a metterli in guardia. Non fate come noi...".

martedì 24 aprile 2018

Attentato Toronto, i titoli dei giornali italiani e i commenti

Così in prima pagina su Il Corriere della Sera
E' passato un giorno dall'attentato di Toronto che ha provocato la morte di almeno dieci persone e per il quale è stato arrestato un giovane studente di origine armena, Alek Minassian. In questo post si è deciso di inserire gli articoli pubblicati da alcuni dei principali giornali italiani. Nell'occasione la scelta è caduta su quelli di cui è possibile, per vari motivi, recuperare il formato pdf, quello più facile da 'fotografare' per riprodurre in maniera chiara sul web. La scelta è così caduta su due fra i principali quotidiani nazionali, Il Corriere della Sera e La Repubblica, uno nazionale ma considerato maggiormente 'locale' (Il Mattino) e due chiaramente regionalisti, Il Gazzettino e La Gazzetta del Mezzogiorno.




lunedì 5 marzo 2018

Elezioni in Italia, i titoli dei giornali canadesi

Incertezza. Questo il senso del voto italiano presentato, prima degli exit poll, sui giornali canadesi. Il Toronto Star titola "Italy heads to polls in election steeped in uncertainty", sottolineando i problemi sorti durante gli scrutinii a causa delle lunghe code e delle schede prestampate con voto PD a Palermo. Lo Star, giornale notoriamente spostato a sinistra, ribadisce come l'Italia sia divisa in the blocchi: il centrodestra attorno a Silvio Berlusconi, il centrosinistra legato a Matteo Renzi e i Cinque Stelle, intesi come voto antisistema. E ancora, dimenticandosi delle violenze di strada commesse dagli 'ultrà' della Sinistra, erge a esempio della tensione montante l'atto criminoso di Luca Traini a Macerata.
Cita invece i primi exit-poll l'edizione online del Globe and Mail: "Italy heads to polls with centre-right ahead but stalemate likely", il titolo, che segna come il centrodestra sia avanti dopo i primi dati, ma la situazione rimanga sostanzialmente di stallo. Anche il Globe parla di voto 'populista' corroborato dalla crisi e dalla povertà della Penisola, definendo l'immagine di un'Italia, piaccia o meno, simile a quella di un Paese da Terzo Mondo.
Infine il Corriere Canadese, giornale in lingua italiana stampato a Toronto, curiosamente, non prende in considerazione il voto italiano. Al contrario, al centro della pagina online del quotidiano degli italocanadesi si pone l'obiettivo su chi sarà il prossimo leader del Partito Conservatore. Del Canada, ovviamente.

giovedì 8 febbraio 2018

Quebec, l'inchiesta della follia: "Troppi lavoratori bianchi"

Si propone, interamente, di seguito, l'articolo di Lorenzo Vita tratto da Il Giornale, dedicato a un bizzarro reportage della radiotelevisione canadese sul mondo del lavoro in Quebec.

Canada, l'inchiesta della radio pubblica: "In Quebec lavorano troppi bianchi"
Un reportage della Canadian Broadcasting Corporation, finanziata con fondi pubblici, ha denunciato che negli uffici pubblici del Quebec lavorano "troppi bianchi". "Sono sovrarappresentati nella forza lavoro del settore pubblico"

di Lorenzo Vita

Negli ultimi anni, il Canada ha certamente fatto parlare di sé per essere diventato il regno del politicamente corretto. L'ultima, in questo senso, è l'uscita del primo ministro Justin Trudeau che pur di evitare di utilizzare la parola "mankind" - troppo virile usare il "man" - ha bloccato una donna che usava quella parola e ha voluto utilizzare un termine diverso, gender-free e cioè "peoplekind".
Ma questa è solo l'ennesima trovata di un Paese che, sotto la guida del giovane rampollo della famiglia Trudeau, sta assumendo caratteristiche a volte addirittura comiche per aver virato verso una deriva non di uguaglianza, ma di vera e propria ossessione verso ogni cosa che possa indicare un minimo senso di differenza fra esseri umani. Insomma, nel Canada del terzo millennio sembra proprio che essere diversi l'uno dall'altro sia un problema ed è opportuno che tutto sia perfettamente uguale fra le diverse componenti del Paese, anche se nessuno considera questa battaglia come qualcosa di estremamente rilevante. E per questo è opportuno livellare qualsiasi cosa non in base ai meriti, come dovrebbe essere, ma in base alla semplice appartenenza sessuale ed etnica.
Il livellamento, ovviamente, deve esserci anche nel lavoro. Ed è così che nasce il reportage della Canadian Broadcasting Corporation (CBC), nota nel Canada francese come Société Radio-Canada, dal titolo abbastanza discutibile: "I dipendenti del settore pubblico del Québec sono troppo bianchi". Secondo il reporter che ha svolto l'inchiesta per la radio pubblica canadese, "anche se un milione di Quebecker sono minoranze visibili - così vengono definite dall'autore -, non sono rappresentati abbastanza nei ministeri e negli enti pubblici della provincia". Secondo quanto deciso con la "Loi sur l'accès à l’égalité en emploi dans des organismes publics" - per gli anglofoni "act respecting equal access to employment in public bodies" - la Commissione per i diritti umani fissa periodicamente degli obiettivi di assunzione di forza lavoro per ogni minoranza e per ciascun ente pubblico. Il tutto secondo criteri specifici che variano in base alla regione o alla città di riferimento e a seconda del numero dei componenti di ogni minoranza. Questo per garantire che ogni etnia o sesso abbia un numero proporzionato di dipendenti pubblici.
In questo sistema di livellamento obbligatorio di tutte le minoranze, il Québec, per Radio-Canada, ha un problema molto serio: troppi bianchi. L'autore del rapporto, Thomas Gerbet, elenca, infatti, diverse società di proprietà pubblica che non rispettano i parametri di uguaglianza e dove esistono percentuali troppo alte di "uomini bianchi" rispetto al numero reale all'interno della popolazione. Un "problema" che accomuna tutti i settori dove è presente lo Stato, dalla società pubblica di liquori fino alla sanità, alle commissioni scolastiche, alla polizia. La polizia di Montreal (SPVM), come ricordato dall'indagine, ha il 14,5% delle "minoranze visibili" tra il personale di polizia e amministrativo, ma "siamo ancora lontani dal 34% della popolazione della città di Montreal”. Denuncia cui ha risposto, in maniera molto più egualitaria, la portavoce della polizia che ha detto: "Tutte le donne e le minoranze visibili, etniche o native che hanno successo nel nostro processo di selezione, vengono assunte". Un modo molto semplice per ricordare che l'uguaglianza si basa sul merito e non sulla diversità di genere o di pelle.
Ovviamente non poteva che essere il Québec la regione obiettivo di questa campagna, dal momento che, nell'ultimo anno, è stata la meta principale dell'immigrazione in Canada, dopo che molti stranieri dagli Stati Uniti hanno superato il confine per giungere nella terra promessa di Trudeau. Il primo ministro canadese ha promesso durante la campagna elettorale l'apertura dei confini e una massiccia accoglienza di immigrati, ricordando in questo Angela Merkel durante il periodo in cui aveva aperto le porte della Germania ai milioni di rifugiati. Sennonché, proprio come la sua collega, anche Trudeau, pochi mesi dopo l'avvio della politica delle porte aperte, è stato costretto a rivedere le sue politiche per riadattarle sull'elettorato canadese, non propriamente incline a un'accoglienza smisurata e incontrollata.

Ti può interessare anche questo articolo sul Canada tratto da Il Giornale

martedì 23 gennaio 2018

Brexit, la Gran Bretagna esplora la via del Canada

Nelle due foto due immagini tratte da Il Sole 24 Ore
In un articolo del quotidiano Il Sole 24 Ore, la giornalista Chiara Bussi sottolinea come potrebbe essere quello canadese il modello preso a prestito dalla Gran Bretagna per la Brexit. Per i britannici si profilerebbe così un accordo ispirato a quello con il Canada, pur se con alcune modifiche. Una soluzione che renderebbe meno traumatici gli effetti della rottura.
Scrive la Bussi: "Dopo l’opzione del modello svizzero o di quello norvegese, un accordo su ispirazione del Ceta, l’Accordo economico e commerciale globale siglato con il Canada, sembra negli ultimi tempi in pole position... Non si tratterà di un semplice “copia e incolla”, precisano gli addetti ai lavori, ma questo accordo di libero scambio, il primo siglato con un Paese del G7, potrebbe rappresentare un punto di partenza per i negoziati che inizieranno a marzo. Con possibili integrazioni per arrivare a un «Canada plus», o persino a un «plus plus plus», a seconda degli aspetti che dovranno essere precisati e concordati. Un’ipotesi che non dispiacerebbe a Italia, Germania e Belgio, perché consentirebbe di limitare i danni della Brexit".

lunedì 8 gennaio 2018

Nomi indiani al posto di quelli ufficiali, la comica della nuova toponomastica canadese

Basta 23rd Avenue, ma l'impronunciabile Maskekosihk Trail
Si riproduce per intero un articolo tratto dal sito internet de Il Post, dedicato alla nuova toponomastica canadese e ai problemi sollevati dalle nuove proposte governative, tese a sostituire gli storici nomi franco-britannici con altri, trattati dalla tradizione indiana delle popolazioni 'native', una sorta di 'debito storico' che il governo di Justin Trudeau sente di dovere nei confronti degli aborigeni nordamericani.

La nuova toponomastica canadese 
In realtà è vecchia: negli ultimi anni molti nomi di strade e di luoghi sono stati cambiati con gli equivalenti delle popolazioni native

In Canada da anni si sostituiscono, o si provano a sostituire, toponimi di origine europea con parole o nomi delle etnie native canadesi. Lo si fa seguendo una raccomandazione della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite, che riconosce alle popolazioni native il diritto di conservare i propri nomi per indicare comunità ed elementi geografici. Nel 2017 più di 600 toponimi indigeni sono stati aggiunti ai registri nazionali, e oggi circa 30mila dei 350mila toponimi canadesi sono di origine indigena. Uno di questi è la stessa parola “Canada”, che nella lingua irochese significa “villaggio”.

Nel 2001 alcune località intorno a Ottawa – la capitale canadese, che prende il suo nome dall’etnia nativa canadese degli Odawa – furono accorpate alla città: si crearono così diverse situazioni di “doppioni”, strade che si chiamavano allo stesso modo e che da quel momento si ritrovarono nella stessa città. Sono circa 80, e da 15 anni si sta provando a cambiarne i nomi: ma spesso non è semplice, ha spiegato un articolo dell’Economist, perché molti residenti non sono d’accordo. Lo scorso novembre il comune ha per esempio rinominato una delle strade chiamate River Street con un nome alternativo, Onigam Street: “onigam” in algonchino significa “trasporto di merci”.

Un altro nome che ha creato delle dispute è stato Maskekosihk Trail (letteralmente “sentiero del popolo della terra della medicina”), scelto dal comune di Edmonton, il capoluogo della provincia dell’Alberta, per sostituire 23rd Avenue. Un consigliere comunale si è opposto alla decisione dicendo che il nuovo nome è più difficile da pronunciare del precedente: i rappresentanti dei Cree – la principale etnia nativa canadese – hanno risposto dicendo di aver dovuto «affrontare degli scioglilingua» sin dall’arrivo degli europei.

In alcuni casi i nomi non sono stati sostituiti, nonostante la volontà di farlo: quando la provincia dei Territori del Nord-Ovest si separò da quella di Nunavut nel 1999, fu proposto di cercarle un nome più breve. La seconda proposta che ricevette più voti fu “Bob”. Alla fine però non se ne fece nulla e il vecchio nome fu mantenuto. In un altro caso, nel 2015, tutti i nomi alternativi proposti per un fiume, il Mackenzie, sono stati accettati: ora lo si può chiamare Dehcho, Deho, Kuukpak, Nagwichoonjik o Grande Rivière. Hanno tutti lo stesso significato, cioè “grande fiume”.

I Nakoda, un’altra etnia nativa canadese, vorrebbero poi che la città di Calgary, la terza più grande del Canada, diventasse “Wichispa Oyade”, che significa “città dell’Elbow”, dal nome di uno dei tre fiumi che la attraversano. I Siksika invece vorrebbero che si chiamasse “Mohkinstsis-aka-piyosis”, che significa “molte case sul fiume Elbow”. L’amministrazione provinciale però non ha mai considerato di rinominare la città, il cui nome deriva da quello della baia di Calgary, in Scozia.

In alcuni casi, diversamente rispetto a quello di Calgary, le ragioni a favore della sostituzione di un toponimo sono legate a ciò che fece la persona da cui deriva. Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha per esempio cambiato il nome dell’edificio in cui si trova il suo ufficio, che era chiamato palazzo Hector-Louis Langevin, perché era il nome di un avvocato che provò a tagliare i legami tra i bambini nativi canadesi e le loro famiglie facendoli vivere nei convitti da lui fondati. Per una ragione simile, i gruppi che rappresentano i nativi canadesi vorrebbero cambiare nome al fiume Cornwallis, che si trova nella Nuova Scozia: il suo nome deriva infatti da quello di un governatore britannico che offriva delle ricompense a chi gli portava gli scalpi della tribù Mi’kmaq.

Una delle più recenti discussioni su questo tema riguarda Amherst Street, una strada di Montreal lunga 1,5 chilometri. Prende il suo nome da Jeffrey Amherst, un comandante dell’esercito britannico che a metà del 18esimo secolo combatté contro i popoli nativi alleati dei francesi, in quelli che oggi sono il Canada e gli Stati Uniti. Amherst chiamava i nativi americani «razza esecrabile» e diceva che avrebbero dovuto essere completamente sterminati. Per questo l’Amherst College del Massachusetts non riconosce più il comandante come propria mascotte, sebbene ne abbia mantenuto il nome. Montreal vuole fare lo stesso con la sua strada, ma per ora non ha ancora trovato un nome sostitutivo: una delle opzioni prese in considerazione è Pontiac, il nome di un capo Odawa che si ribellò contro Amherst.

domenica 7 gennaio 2018

In Canada parte la corsa al cobalto, prezzi raddoppiati

Si riproduce di seguito l'articolo, tratto dal quotidiano La Stampa, a firma di Francesco Semprini, dedicato alla 'corsa al cobalto'.

Auto elettriche, smartphone e batterie. E in Canada parte la corsa al cobalto
I prezzi del minerale raddoppiati in un anno, Toronto vuole superare il Congo come produttore mondiale

di Francesco Semprini

È l’elemento chimico di numero atomico 27. Il suo simbolo è «Co» e il nome sembra derivi dal greco kobalos, traducibile con folletto, «kobold» in tedesco, probabilmente dato ai minatori della Foresta Nera che incolpavano i folletti di fargli trovare un metallo inutile anziché il desiderato oro. Ed invece oggi il cobalto è protagonista di un riscatto senza precedenti che gli sta facendo scalare la tavola periodica degli elementi sino ad affacciarsi all’Olimpo dei metalli preziosi. Ed il tutto grazie alla progressiva, quanto inesorabile, diffusione delle auto elettriche, perché il cobalto è un materiale fondamentale per la realizzazione delle batterie al litio che vengono poi montate sulle cosiddette vetture «alternative» a basso impatto ambientale. 

A brindare sono i minatori del Canada, un Paese ricco di giacimenti di cobalto che hanno visto aumentare come non mai la richiesta del metallo in passato disponibile in grandi quantità nelle miniere della Repubblica democratica del Congo. I conflitti che stanno però dilaniando il Paese africano, associati a una serie di problematiche relative allo sfruttamento di mano d’opera locale, rendono complicato, se non proibitivo, l’approvvigionamento da fonti congolesi, pertanto il settore dell’«automotive innovativa» si rivolgono altrove. Ma non è tutto, perché il metallo, che è un ottimo conduttore assieme a litio e nickel, è largamente utilizzato anche nella realizzazione di batteria per prodotti elettronici portatili, come smartphone e pc. 

Un business globale da miliardi di dollari, un’opportunità imperdibile per il Canada terzo produttore di cobalto dopo Congo e Cina, con una quota del 6% sull’output mondiale secondo Us Geological Survey, l’ente federale americano di settore. Ecco allora che giganti nazionali come Vale, titolare di una miniera di cobalto a Sudbury, in Ontario, e Sherritt International, stanno accelerando su investimenti e produzione. Accanto a loro, però, ci sono realtà più piccole, come Royal Nickel, First Cobalt e Fortune Minerals, che stanno raccogliendo fondi di «venture Capital» per dar via a esplorazioni del sottosuolo, alla ricerca di giacimenti da sfruttare. Il balzo della domanda ha spinto il prezzo del cobalto a 75 mila dollari per «metric ton» al London Metal Exchange, ovvero oltre il doppio rispetto ai valori di inizio anno. Secondo quanto riporta il «Wall Street Journal», le attese sono per un ulteriore raddoppio dei prezzi di listino nei prossimi due anni, legati a un massiccio aumento della richiesta di batteria per auto elettriche. E soprattutto in virtù delle ristrettezze nell’offerta del metallo, visto che sino a qualche tempo fa il Congo produceva circa i due terzi del cobalto utilizzato nel mondo. Sino a quando l’opinione pubblica internazionale non ha preso coscienza delle devastanti condizioni dei lavoratori delle miniere nazionali e dello sfruttamento del lavoro minorile. 

Secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato nel 2016, le compagnie congolesi impiegano anche bambini di sette anni sottoposti a turni di lavoro massacranti e sicurezza azzerata. Il «cobalto dello sfruttamento» veniva poi venduto a raffinerie cinesi e quindi destinato all’industria delle batterie. Un fenomeno che ha provocato l’indignazione collettiva e l’introduzione di certificazioni ad hoc per assicurare la provenienza del metallo e impedire che la corsa al metallo non si prestasse a nuove forme di schiavismo. Tanto che nove grandi produttori di auto come Volkswagen, Ford e Daimler hanno dato vita a un osservatorio al fine di individuare la provenienza delle materie prime utilizzate per componenti e veicoli, a partire proprio dall’oggi tanto desiderato cobalto.

sabato 30 settembre 2017

Hugh Hefner addio: Playboy, sono 20 le Playmate canadesi

La morte di Hugh Hefner, fondatore del celebre magazine Playboy, ha riportate in auge tutto il mondo del softcore che ha dato vita alla figura delle Playmate, ovvero la modella del mese che aveva l'onore di comparire sulla copertina del numero e all'interno del servizio centrale, con tanto di poster.
Le Playmate canadesi nella storia della rivista sono state in totale 20, con la prima in assoluto, nell'edizione statunitense, Pamela Anne Gordon, che fu Miss marzo 1962. La più famosa rimane forse Pamela Anderson, febbraio 1990, protagonista assoluta della serie televisiva "Baywatch".
Suddivise per province canadesi, le playmate 'a nord del confine' provengono per la maggior parte dalla British Columbia (10), mentre sei arrivano dall'Ontario e due a testa da Quebec e Newfoundland.
Suddivise invece per decadi, gli anni '60 hanno visto incoronare a playmate solamente la Gordon, negli anni '70 il numero salì a cinque, gli anni '80 videro tre reginette canadesi (e tutte e tre nel 1981, nei mesi di luglio, ottobre e novembre), così come nei '90 (1990 anno top con le miss di gennaio, febbraio e dicembre). La prima decade degli anni Duemila ha visto cinque playmate canadesi, mentre quella in corso ne ha viste pubblicate tre.





lunedì 4 settembre 2017

Jessica Chastain sulla copertina di Elle Canada di settembre

E' Jessica Chastain la protagonista della copertina di settembre di Elle Canada, consorella dell'originale rivista di bellezza e moda femminile, fondata nel 1945 da Pierre Lazareff e dalla moglie Hélène Gordon. L'attrice californiana è protagonista di una intervista realizzata da Sarah Laing, con fotografie di Max Abadian, si è presentata in maniera disinvolta e affabile assieme al marito italiano Gian Luca Passi di Preposulo, sposato recentemente a Treviso, per affrontare i temi a lei cari del femminismo ma anche della sua vita di star di Hollywood, citando per esempio la sua conferneza stampa al termine dell'ultimo festival di Cannes, in cui aveva criticato molti dei film nei quali la figura femminile era utilizzato solo allo scopo di 'servire' quella maschile in maniera funzionale alla sceneggiatura. E aggiunge la convinzione che fra donne possa esistere una sorta di cameratismo, la 'sisterhood', negata da sempre dagli uomini proprio per evitare che il genere femminile possa rendersene conto. L'ultima domanda: What would you like your legacy to be, your ultimate impact on the world? “It’s not a bad thing to want to make your mark on the world, but I don’t think it’s all that important to have your name withstand the test of time. It’s more about what I’m doing right now and what I’m doing to contribute to making the world a better place, as cheesy as that sounds".


domenica 3 settembre 2017

Guerra di mafia in Canada, un lungo elenco di omicidi

Si riporta integralmente l'articolo-inchiesta di Arcangelo Badolati sulla guerra di mafia attualmente in corso in Canada e pubblicato sul numero di questo 3 settembre sulla Gazzetta del Sud.

"La guerra tra siciliani e calabresi in Canada"
di Arcangelo Badolati
Omicidi a Montreal, Toronto, Vaughan, Hamilton, Woodbridge
ll sangue d’oltremare. Guerre per il controllo del business, regolamenti di conti interni e vendette sanguinarie animano la scena criminale canadese. Nella terra dei grandi laghi e delle cascate del Niagara risiedono migliaia e migliaia di calabresi e siciliani che hanno fatto fortuna: molti onestamente, altri seguendo i tortuosi sentieri del mondo criminale. Il Canada è la seconda patria dei Cuntrera-Caruana e dei Rizzuto così come dei Cotroni, dei Violi e dei Racco, famiglie isolane e calabre legate a Cosa nostra e alla ‘ndrangheta. L’ultima vittima dei conflitti mafiosi in atto è Antonio Di Blasio – chiare origini calabresi –  ucciso il 17 agosto scorso da un killer mentre accompagnava il figlio ad una partita di calcio in un parco posto alla periferia di Montreal. L’uomo è componente della cosca Rizzuto ed era legato al sottocapo di origine pugliese Rocco “sauce” Sollecito. Tra l’Ontario e il Quebec s’è scatenato uno scontro feroce finalizzato ad assumere il comando della mafia italo-americana e raccogliere l’eredità di Vito Rizzuto, storico capo della “Sesta famiglia” morto per una crisi cardiaca il 23 dicembre del 2013 in un letto d’ospedale. I clan calabresi, spodestati nel 1978 con l’assassinio di Paul Violi, originario di Sant’Eufemia d’Aspromonte e fino ad allora padrino assoluto delle organizzazioni criminali canadesi, vorrebbero riprendersi il potere e riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa di “don Vito”. Di Blasio era un uomo legato ai Rizzuto e la circostanza gli è costata la vita. Una destino tragico toccato pure ad altri importanti esponenti della “Sesta famiglia”. Il primo marzo del 2016, a Montreal, cade assassinato Lorenzo Giordano, componente della “commissione” istituita per gestire gli affari dopo la morte di “don Vito”. È solo l’inizio perchè il successivo 28 maggio tocca ad un altro pezzo da novanta del gruppo di comando: Rocco Sollecito, detto “Sauce”, che viene trucidato davanti alla fermata d’un bus. Il tre giugno, in un caffè frequentato da italiani, un sicario chiude un altro “contratto” lasciando steso, accanto a un tavolino, Angelo D’Onofrio, amico di molti personaggi influenti del clan Rizzuto ma fuori dal giro. L’uomo viene trucidato per errore perché scambiato – secondo la polizia canadese – per Antonio Vanelli che a quell’ora e in quello stesso momento stava partecipando al funerale di Sollecito. D’Onofrio aveva la stessa età, la medesima corporatura, uguali capelli bianchi della vittima designata. Il 15 ottobre viene assassinato un altro luogotenente dei Rizzuto, Vince Spagnolo, 65 anni, trucidato davanti alla sua abitazione. Le pistole, però, tuonano anche nell’Ontario, feudo degli ndranghetisti calabresi già dai tempi dell’immarcescibile boss Mike Racco, passato a miglior vita per cause naturali alla fine degli anni 70 e legato al boss dei due mondi sidernese Antonio Macri. Il due maggio scorso Angelo Musitano, 39 anni, viene ucciso ad Hamilton da un sicario nel vialetto di casa. L’assassino, vestito di scuro spara mentre la vittima è ancora a bordo della propria auto. Il padre, Domenico Musitano, morto per un attacco cardiaco nel 1995, era considerato un “uomo di rispetto” a tutto tondo della città dell'Ontario. Il fratello di Angelo, Pasquale Musitano, detto “Pat”, la notte del successivo 27 giugno subisce a sua volta un attentato: un killer spara 12 colpi di pistola contro le finestre dell’abitazione dove l'uomo risiede con la famiglia. I due germani erano stati indagati nel 1997 per l’omicidio di Johnny Papalia, capo del presunto omonimo clan e del suo braccio destro, Carmelo Barillaro. I Musitano, con un patteggiamento concluso con il pubblico ministero, avevano incassato una condanna a 10 anni di reclusione tornando poi liberi nel 2007. Ma nell’Ontario, dove già il 5 ottobre del 2000 la “sesta famiglia” dei Rizzuto era stata colpita duramente con l’uccisione di Gaetano Panepinto, 41 anni, “rappresentante” del clan a Toronto, lo scontro tra calabresi e siciliani ha fatto altre vittime. Nel luglio del 2013 sono stati assassinati, a Woodbridge, Sam Calautti, detto “the yong gun” e il suo braccio destro, Jimmy Tusek. Calautti era sospettato d’aver partecipato sia al delitto Panepinto che all’agguato costato la vita al capostipite dei Rizzuto, l’ottantaseienne, Nick, ammazzato da un cecchino nella sua villa di Montreal, nel novembre del 2010. E sempre a Woodbridge viene assassinato con un colpo di pistola alla testa, venerdì 31 marzo 2017, Antonio Sergi, 53 anni. L’uomo, originario della Locride, è sorpreso dal sicario incaricato di chiudere il “contratto”, lungo il vialetto di casa. Il calabrese sta rientrando nella villetta posta nella zona di Etobicoke in cui abitano da anni molti italiani (in larga parte siciliani e calabresi). Negli ambienti investigativi e tra i connazionali Sergi era conosciuto come “Tony Large”. L’ucciso era stato coinvolto in indagini che riguardavano il traffico di droga e manteneva stabili contatti con gli Stati Uniti. Nelle stesse ore, a Vaughan, città poco distante dal capoluogo dell’Ontario, cade sotto i colpi di un killer un altro italiano, Domenico Triumbari, 55 anni, originario di Siderno. La vittima viene assassinata in un parcheggio di Regina Road, davanti ad una serie di attività ricreative e commerciali. A sparare un uomo con una felpa scura dotata di cappuccio che ha compiuto l’esecuzione con la freddezza tipica dei “professionisti” del crimine, lasciando poi la scena a bordo di una berlina Honda condotta da un complice. La scena viene ripresa dalle telecamere di sorveglianza installate nella zona. Pure Triumbari frequentava Woodbridge dove poi è stato sepolto. Prima di loro era caduto, il 24 aprile del 2014, nel parcheggio di una caffetteria di Toronto, Carmine Verduci, boss di origini calabresi con forti legami con la terra di origine. La vittima non era uno sprovveduto: gli investigatori italiani cinque anni prima l’avevano intercettato a Siderno, mentre dialogava con Giuseppe Commiso, detto “U mastru”, capo dell’omonima cosca. Il “canadese” era andato a lamentarsi perché le ‘ndrine calabresi non l’avevano chiamato per partecipare all’assemblea criminale indetta per assegnare le “cariche” ‘ndranghetistiche provinciali. Verduci si duoleva inoltre dell’elezione di Domenico Oppedisano, anziano “uomo di rispetto” di Rosarno, al ruolo di “capo crimine”. «Non è giusto che se lo sono presi là... spetta a uno della Ionica... e a me mi hanno dovuto mandare un’ambasciata». Ma c’è un altro calabrese caduto nella guerra che si combatte Oltreoceano. Viveva a Montreal, era originario di Rovito (Cosenza) ma è stato ucciso ad Acapulco (Messico) mentre era seduto a un tavolo esterno del ristorante “Forza Italia”. Si chiamava Moreno Gallo, negli ambienti criminali veniva indicato come “the turkey” ed è stato eliminato il 10 novembre del 2013 nel terzo anniversario della morte di Nick Rizzuto senior, detto “uncle Nick”, patriarca della “Sesta famiglia”. Gallo era stato legato ai Rizzuto ma successivamente si era allontanato dal clan parteggiando per gli avversari. Prima di lui, nel luglio dello stesso anno un altro calabro-canadese, Vincenzo Scuderi, originario del Reggino, era stato ammazzato davanti casa nella città capoluogo del Quebec. Scuderi era ritenuto un luogotenente di Raynald Desjardins, prima alleato e poi nemico giurato dei Rizzuto.

lunedì 27 marzo 2017

Trudeau scaricato dai canadesi: sugli immigrati sono con Trump

Justin Trudeau e Donald Trump
Riproduciamo di seguito l'articolo tratto dal blog "Gli occhi della guerra" di Roberto Vivaldelli del quotidiano "Il Giornale", dedicato al declino del primo ministro Justin Trudeau agli occhi dei canadesi, sempre più 'Trump-oriented'.

I canadesi scaricano Trudeau: sugli immigrati sono con Trump

di Roberto Vivaldelli

Donald Trump e Justin Trudeau. Da una parte il neo-presidente Usa accusato di razzismo e xenofobia per le sue iniziative contro l’immigrazione; dall'altra “il simbolo dell’accoglienza”, l’affascinante premier canadese pro-rifugiati idolo dei progressisti di tutto il mondo, secondo la visione manichea che una certa narrazione ha imposto.Il bene e il male dunque, almeno per l’opinione pubblica liberal, pronti a sfidarsi su una questione delicata e complessa come quella dell’immigrazione. “Accogliere i rifugiati – ha spiegato più volte Trudeau – è un investimento per il Canada“.
Il sondaggio che boccia Trudeau
Il giovane premier, tuttavia, non ha fatto i conti con l’opinione dei suoi cittadini, che la pensano in larga misura come l’antagonista Trump. Secondo un sondaggio Ipsos diffuso da Reuters, il 48 per cento dei canadesi, infatti, vorrebbe rimandare indietro tutti gli immigrati illegali che entrano nel paese. La stessa percentuale è favorevole alla deportazione dei clandestini che vivono nel Paese, mentre solo il 35% degli intervistati guarda con favore alle politiche di Trudeau e si dichiara favorevole all’accoglienza. Si tratta di un clamoroso flop per tutta l’opinione pubblica che in queste settimane ha attaccato Trump sul tema. E il sentimento popolare espresso in maniera così marcata potrebbe imporre al premier canadese un parziale cambio di rotta nella strategia comunicativa.
La maggioranza è con Donald Trump
L’aumento del flusso di richiedenti asilo di origine africana e mediorientale proveniente dagli Stati Uniti sta diventando un tema molto dibattuto in Canada. Anche se per decenni l’immigrazione controllata e legale è stata promossa in maniera bipartisan nel Paese, Trudeau è sotto pressione per il flusso di clandestini che entrano in Canada. E ora la maggioranza dei cittadini si dichiara favorevole a quanto promosso da Donald Trump in materia. Negli Usa, nel frattempo, i risultati di un sondaggio analogo condotto sempre daReuters/Ipsos hanno dato il medesimo risultato, con il 50% dei cittadini favorevole “all’aumento delle deportazioni degli immigrati illegali”.
Numeri da record
Secondo Foreign Policy, l’immigrazione clandestina verso il Canada ha raggiunto numeri record. Nel corso del 2016, 1.222 immigrati senza documenti sono fuggiti dagli Stati Uniti e si sono diretti in Quebec, per un numero cinque volte superiore rispetto agli anni passati. Da gennaio ad oggi, inoltre, il trend non è affatto cambiato. E mentre il dibattito si scalda, le autorità canadesi insistono nel l’affermare che stanno difendendo le frontiere secondo le severe norme in materia di immigrazione clandestina. “Se la loro richiesta di asilo è irricevibile, iniziano immediatamente le procedure di espulsione” – ha dichiarato a Reuters Dan Brien, portavoce del Ministro della Pubblica sicurezza nazionale canadase.
Il Canada non accoglie in maniera indiscriminata
Al di là di una certa narrazione e delle dichiarazioni di accoglienza indiscriminata, il governo canadese ha mantenuto il tetto massimo di 300 mila immigrati per il 2017, che corrisponde all’1% della popolazione complessiva. Dimezzato, al contrario, il numero massimo di rifugiati da accogliere: dai 25 mila del 2017, ai 44 mila dello scorso anno, quando nel Paese arrivarono più di 25 mila profughi siriani. I numeri indicano una realtà ben diversa dalle dichiarazioni di facciata e dalle copertine patinate in voga nei salotti liberal.

giovedì 2 febbraio 2017

Strage Quebec City: Canada, la terra felice scopre l'odio razziale

Viene riprodotto di seguito l'articolo di Francesca Pierantozzi per "Il Messaggero", scritto in questi giorni come commento alla strage di Quebec City.

Modello in crisi
Canada, lo choc della terra felice che scopre l’odio razziale
Il Canada è incredulo ma qualche crepa sociale era apparsa da tempo. E' stata l'apertura ai rifugiati siriani a scatenare l'ondata antimusulmani

di Francesca Pierantozzi

«Il Canada non è il Paese perfetto e la società canadese non è certo priva di tensioni, ma nessuno, davvero nessuno, poteva aspettarsi un attacco come quello alla moschea di Québec. Siamo scioccati. Oggi è lo stupore e l’incredulità che dominano, non soltanto tra la gente, ma anche tra i politici»: Eric Bédard è nel suo ufficio, all’Università di Montréal. Lo storico e politologo canadese ha scritto decine di libri sul suo Paese, è un un profondo conoscitore della giovanissima costituzione (porta la data del 1982, prima la carta fondamentale era una legge britannica), del suo multiculturalismo quasi genetico, dei dibattiti, anche aspri che provoca, delle nuove tentazioni identitarie, eppure i morti dentro il centro culturale islamico per lui non hanno davvero una spiegazione.
LO STUPORE
Non che non ci sia del marcio in Canada, anche se il primo ministro liberal Justin Trudeau continua a volare altissimo nei sondaggi e a novembre, a un anno dall’insediamento, perfino i detrattori più irriducibili avevano dovuto ammettere che un quarto delle promesse elettorali erano già state mantenute. Quasi un record. Pochi si sono sorpresi quando sabato scorso Trudeau ha risposto al vicino Donald Trump che chiudeva le porte, spalancando quelle di casa sua: «Chi fugge da persecuzioni, terrore e guerra, sappia che il Canada lo accoglierà senza preoccuparsi della sua fede - ha twittato Trudeau - La diversità è la nostra forza #BenvenutiInCanada». Il giorno dopo, il massacro nella Moschea di Sainte-Foy. «Anche se con Trump s’insinua un clima di sospetto e risentimento, fino a oggi nessuno poteva davvero aspettarsi un attacco xenofobo tanto orribile» insiste Bédard. Eppure, dalla cronaca qualche segnale era cominciato ad arrivare. Nell’ultimo anno, mentre il Paese apriva la porta ai rifugiati siriani (35mila da dicembre 2015) si sono moltiplicati episodi anti-musulmani. Nessunmorto, ma il segno di una violenza in aumento: un incendio doloso alla moschea di Montreal, un altro a un centro culturale musulmano a Sept-Iles, minacce di morte telefoniche al responsabile di un’Associazione. Un anno fa una testa di maiale mozzata era stata lasciata davanti alle porte della moschea di Sainte-Foy. Sopra la scritta: “Buon appetito”. Una settimana dopo nel quartiere erano circolati volantini islamofobi, che definivano «un covo di radicali» la moschea e il suo centro culturale, con una biblioteca e una scuola di lingua araba. All’epoca il presidente del centro Mohamed Yangui aveva preferito minimizzare: «Noi andiamo d’accordo con tutti, non abbiamo problemi con nessuno. Siamo qui per dare una bella immagine dei musulmani a tutto il Quebec».
LA MOZIONE
Non ha invece minimizzato il deputato Iqra Khalid, che a dicembre ha presentato una mozione per chiedere una condanna del Governo contro l’Islamofobia e uno studio su come combatterla. Trudeau ha anticipato il voto della mozione (in agenda questa settimana) e ha moltiplicato i segni di apertura, non sempre tra gli applausi. È andato per esempio a vantare la “diversità” canadese in una moschea che vieta il culto promiscuo: uomini separati dalle donne durante la preghiera. Le due ministre che lo accompagnavano sono dovute entrare da una porta secondaria e assistere al discorso del premier da una loggia, cosa che ha provocato non poche proteste. Se Trump sembra esercitare qualche fascino su Kevin O’Leary, in corsa per la segreteria del Partito Conservatore, le idee dell’Americano non hanno grande presa oltre confine. Poca simpatia ispira anche Marine Le Pen: la sua visita, lo scorso marzo, si è svolta nell’indifferenza totale dei politici e del pubblico, e sotto il fuoco della stampa. Ciò non toglie che Alexandre Bissonette, uno dei due attentatori di Québec, abbia spesso avuto belle parole per la presidente del Front National: «Era contento che fosse venuta in Québec - ha raccontato François Deschamps, membro del Comitato di accoglienza ai rifugiati siriani, che lo conosceva come attivista sui social - Parlava d’identità, del rischio di perdere le nostre radici e la nostra cultura con l’arrivo dei rifugiati». La comunità musulmana in Québec ora ha paura. «È una comunità vivace, antica, molto numerosa» spiega Bédard. Una comunità che fa parte dell’identità del Québec. Lo stato ha uno statuto speciale in fatto di immigrazione, e ha diritto a praticare una selezione all’ingresso: priorità è data agli immigrati francofoni, e dunque anche agli arabi del Maghreb.

mercoledì 1 febbraio 2017

Strage Quebec City, chi è Alexandre Bissonnette

Viene riprodotto di seguito per intero l'articolo che Claudio Salvalaggio ha scritto per l'agenzia ANSA e dedicato alla figura di Alexandre Bissonnette, accusato della strage di Quebec City.

Canada: killer moschea 'lupo solitario' nazionalista
Noto su web per sue simpatie estremiste. Scena muta in tribunale

di Claudio Salvalaggio

Un 'lupo solitario' non radicalizzato ma noto per le sue simpatie verso i movimenti nazionalisti e seguace di Donald Trump e Marine Le Pen, come risulta dal suo profilo Facebook. E' il ritratto della banalità del male quello di Alexandre Bissonnette, 27enne studente franco-canadese di scienze politiche alla locale università Laval, arrestato e accusato dell'attacco alla moschea di Quebec City, dove sono sono stati uccisi sei fedeli ed altri cinque sono rimasti gravemente feriti.
 Un "atto terroristico contro i musulmani" - come l'ha definito subito il premier canadese Justin Trudeau - che ha suscitato un'ondata internazionale di condanne e di solidarietà, in particolare dal mondo cattolico. E che ha seminato paura tra il milione di musulmani che, come molti altri immigrati e rifugiati, avevano scelto l'ospitale Canada pensando di essere al sicuro da xenofobia e razzismo.
Bissonnette è comparso ieri brevemente in tribunale ma, pur agitandosi molto, non ha detto una parola, neppure di scuse. Era stato lui, dopo la strage, a chiamare il 911 (il numero di emergenza) per dire che voleva consegnarsi collaborando con la polizia. Gli inquirenti sono convinti che abbia agito da solo e che non sia in contatto con gruppi terroristi ma il movente di tanta violenza non è ancora stato accertato. La polizia sta scandagliando la sua vita, anche sui social network, e ascoltando famigliari, amici, compagni di università. Il giovane non era noto alle forze dell'ordine. Ma era ben conosciuto dagli attivisti che monitorano i gruppi estremisti in Quebec, ha spiegato François Deschamps, dirigente di una ong che si occupa di rifugiati. "E' con dolore e rabbia che apprendiamo l'identità del terrorista Alexandre Bissonnette, sfortunatamente noto a molti attivisti in Quebec per le sue posizioni a favore dei nazionalisti, pro Le Pen e anti femministe all'università Laval e sui social media", ha osservato. Su Facebook aveva espresso sostegno anche per 'Generation nationale'', un gruppo ostile al multiculturalismo. Ma la sua simpatia più forte era per Marine Le Pen e il suo Front National, che fa presa sulla comunità francofona del Quebec con i suoi slogan xenofobi, guadagnandosi l'appoggio dei suprematisti bianchi.
Un portavoce del Front National, Alex Frederiksen, ha definito "deplorevole" l'attacco alla moschea ma, ha precisato, "Marine le Pen non deve scusarsi per i commenti che la gente fà sulla propria pagina di Facebook". In effetti Bissonette è solo uno dei tanti giovani calamitati dalla sirena del nazionalismo di marca xenofoba, la stessa che ha spinto alla vittoria Donald Trump in Usa. Per ora non è dato sapere cosa l'abbia indotto a passare dalla dichiarata ostilità per gli immigrati ad un'azione armata. Si sa però che ha imparato ad usare le armi tra i cadetti, nella cui uniforme appare su Fb.
Dopo lo shock per la tragedia, oggi a Quebec City è il tempo della solidarietà. Una messa in ricordo delle vittime dell'attentato si terra' questa sera alle 19.00 nella chiesa Notre-Dame-de-Foy, che si trova proprio di fronte alla moschea. Ieri la diocesi locale aveva promosso una veglia terminata con una marcia di solidarietà alla comunità musulmana, alla quale ha partecipato anche Trudeau: "Trentasei milioni di cuori sono straziati insieme ai vostri", ha detto il premier canadese.

martedì 31 gennaio 2017

Strage Quebec City, il Canada 'liberal' finisce nel mirino

Viene riprodotto di seguito per intero l'articolo che la giornalista Sara Gandolfi ha scritto su Il Corriere della Sera commentando la strage di Quebec City.

Il Canada "liberal" finisce nel mirino. La loro bandiera è l’accoglienza per tutti
Ogni anno 300.000 migranti e migliaia di profughi

di Sara Gandolfi

“Non esiste il canadese modello. Non c’è nulla di più assurdo della definizione “all Canadian”. Una società che enfatizza l’uniformità crea intolleranza e odio”. Con queste parole, l’8 ottobre 1971, il premier Pierre Trudeau spiegò perché aveva deciso di trasformare un concetto fino ad allora teorico — il multiculturalismo — in “politica ufficiale” del suo governo, e di tutti quelli che seguirono. Era la prima volta che il leader di uno Stato si impegnava formalmente a proteggere e promuovere la diversità, riconoscere i diritti delle popolazioni aborigene e sostenere l’uso del bilinguismo. Non fu una scelta “morale”, in realtà: il Partito liberale di Trudeau stava perdendo consensi in Québec, minacciato dal crescente sostegno al separatismo, e puntava a conquistare il voto delle comunità di “nuovi canadesi” in Ontario e British Columbia. Sta di fatto che la “diversità” è diventato un valore collettivo nel Paese delle Giubbe rosse.
Quarantacinque anni dopo, è toccato a un altro Trudeau, il figlio Justin, riportare in auge un principio che con il tempo sembrava essersi appannato. Il 27 giugno scorso, il giovane premier ha messo nero su bianco la filosofia nazionale, con una dichiarazione che sembra la continuazione di quella del padre: “Il multiculturalismo è la nostra forza, sinonimo di Canada quanto lo è la foglia di acero. Qualsiasi sia la nostra religione, il luogo in cui siamo nati, il colore della nostra pelle o la lingua che parliamo, siamo tutti cittadini uguali di questo grande Paese. Le nostre radici raggiungono ogni angolo del pianeta”.
Il tweet del premier Porte aperte “a chi fugge persecuzione, terrore e guerra, a prescindere dalla fede”
I numeri confermano. Un quinto dei canadesi è nato all’estero. Nelle principali città, da Toronto a Vancouver, quasi metà della popolazione è formata da minoranze. Eppure è difficile trovare sacche di segregazione come quelle presenti in tante periferie europee o statunitensi. La parola d’ordine è: integrazione. Ed è il più grande successo della politica di Ottawa. In un Paese in cui il ministro dell’Immigrazione, Ahmed Hussen, è di origine somala — e garantisce permessi di residenza temporanei a chi viene respinto dagli Usa di Trump — e le partite di hockey vengono trasmesse regolarmente in Punjabi oltre che in francese e in inglese, fino ad oggi nessuno si è mai sentito davvero straniero.
La politica d’inclusione di Trudeau jr ha ricevuto il plauso dell’Economist: “Oggi, nella sua solitaria difesa dei valori liberali, il Canada sembra veramente eroico”, ha scritto il settimanale. Una “fortezza di decenza, tolleranza e buon senso” che ogni anno, da un ventennio, apre le porte a 300.000 migranti, circa l’1% della popolazione (nel 2016 sono arrivati anche 46.000 profughi, in gran parte siriani) e offre ai nuovi arrivati una rete di “sponsor privati”, cittadini che si prendono la responsabilità di aiutarli durante il loro primo anno nel Paese.
La distanza che separa il Canada dagli Stati Uniti (ma anche dall’Europa della Brexit e del nazionalpopulismo) non è forse mai stata così ampia. “Siamo i campioni solitari del multiculturalismo tra le democrazie occidentali”, dice Stephen Marche, scrittore ed opinionista canadese. “Questa solitudine ci accompagnerà nei mesi e negli anni a venire, forse per sempre”. Trudeau lo sa e ne sta facendo il perno della sua politica: “A chi sta fuggendo persecuzione, terrore e guerra... i canadesi vi daranno il benvenuto, a prescindere dalla vostra fede”, ha twittato dopo l’altolà di Trump.

sabato 21 gennaio 2017

Kevin O'Leary, la risposta dei conservatori a Justin Trudeau

Viene riprodotto di seguito per intero l'articolo che Francesco Veronesi, direttore del Corriere Canadese, ha scritto relativamente alla figura di Kevin O'Leary.

O'Leary, il miliardario che tenta la scalata ai Tory

di Francesco Veronesi

In Italia abbiamo avuto Silvio Berlusconi, negli Stati Uniti è il turno di Donald Trump. Il Canada ora è la nuova arena politica dell’ennesimo milionario che tenta la scalata a un partito per diventare il leader di un Paese occidentale. Kevin O'Leary ha lanciato la sua sfida agli altri 13 candidati alla leadership del Partito Conservatore, primo passo di un possibile lungo braccio di ferro con il primo ministro liberale Justin Trudeau che durerà dal prossimo maggio fino al 2019, quando il Canada tornerò alle urne.
Ma chi è O’Leary? Nato a Montreal 62 anni fa, figlio di due immigrati - padre irlandese e madre libanese - sin da giovanissimo mostra una grande abilità e passione per il mondo della finanza e degli investimenti. Dopo essersi laureato alla University of Waterloo e aver proseguito gli studi alla Ivey Business School at The University of Western Ontario, O’Leary decide di avviare la sua impresa. E lo fa dal basement di casa sua nel 1986 fondando con altri due soci la Softkey, società specializzata nella creazione di software. Dopo le prime difficoltà la compagnia inizia a consolidarsi sul mercato, puntando sullo sviluppo di programmi educativi per le famiglie e per i bambini. Nel 1993, dopo l’acquisto di altre due società - WordStar e Spinnaker Software - la sua compagnia diventa tra le più importanti di questo segmento di mercato, conquistando la supremazia dopo la scalata a un’altra azienda, la The Learning Company (TLC), che diverrà poi la compagnia principale del suo gruppo. Poi, nel 1999, la svolta: O’Leary vende la nuova azienda in blocco alla Mattel, diventando multimilionario.
Negli anni successivi è protagonista di numerosi altri investimenti, mentre lentamente inizia a diventare un volto televisivo per le sue apparizioni sulla Cbc e sulla Abc. Negli ultimi anni, infine, O’Leary diventa un personaggio pubblico per il suo ruolo nei due reality Dragon’s Den e Shark Tank.
Per buona parte del 2016, quando si stava iniziando a riempire la griglia dei candidati alla leadership conservatrice, O’Leary rende pubblica la sua volontà di entrare in politica per “salvare il Paese da Justin Trudeau”. Ma prima di farlo vuole capire se esiste o meno la possibilità di creare consenso - della base e nei vertici di partito - attorno alla sua potenziale candidatura.
Mercoledì, infine, O’Leary mette da parte le titubanze di questi mesi e ufficializza la sfida agli altri 13 candidati. Nel suo programma, sintetizzato durante alcune interviste televisive, viene identificata la fascia elettorale da recuperare per sconfiggere i liberali alle prossime elezioni: i giovani dai 18 ai 35 anni. Grande enfasi, infine, sulla lotta al debito pubblico e sul rilancio dell’economia.

venerdì 20 gennaio 2017

Donald Trump, i titoli dei giornali canadesi

Il Canada, si sa, ha da sempre mantenuto una posizione fortemente critica nei confronti di Donald Trump.
Una scelta perseguita spesso oltre i limiti della demagogia per esempio dalla televisione canadese,la CBC (ma di questo ne parlerò in un articolo a parte).
In questo post vi mostreremo i titoli dei principali quotidiani online canadesi sull'elezione del leader repubblicano, che ha sbaragliato il campo a Hillary Clinton, divenendo così il 45° presidente degli Stati Uniti d'America, dopo Barack Obama.
Cominciando da Ovest, il Vancouver Sun mette tutto nel titolo: "Trump: An unapologetic nationalist, trade populist becomes 45th U.S. president". L'Ottawa Citizen non si espone più di tanto e anzi, dopo poche ore dal giuramento di Trump, lo relega fra le notizie laterali: "Donald Trump is sworn in as President of the United States" è il titolo del quotidiano della capitale. Più blando di così... Sempre nell'OC il critico cinematografico Jay Stone trasforma la giornata inaugurale della presidenza Trump in una sceneggiatura da film. Ovviamente da stroncare.
Chi invece prende una posizione forte è, al solito, il Toronto Star, da sempre orientato su posizioni di 'sinistra' e che già in passato si era distinto per una serie di furiosi attacchi contro Silvio Berlusconi sferrati dalla incerta penna di una giornalista il cui nome (che fortunatamente ho dimenticato) tradiva origini italiane. Lo Star, invece che sul giuramento, apre puntando sulle (presunte) violenze della polizia sui manifestanti anti-Trump, nemmeno poi così tanti, ma in grado di affrontare la polizia in stile black-bloc, con lancio di pietre, fumogeni e incapucciamenti: "Police make arrests, deploy pepper spray in confrontation with Trump protesters". Insomma, scene già viste in Europa e ampiamente giustificate da quelle stesse parti politiche che ora deplorano Trump. Quella 'informazione' che identifica un gruppuscolo di criminali violenti con 'la gente' e che per questo parla di 'America divisa', quando invece la vittoria di Trump è apparsa fin da subito netta e senza possibilità di replica. Ma tant'è, allo Star si ragiona così da tempo, la macchina mediatica e demagogica del dare addosso al nuovo presidente degli Stati Uniti è cominciata da tempo ma, evidentemente, non ha sortito gli effetti sperati. La gente, fortunatamente, almeno quella che rappresenta l'orgoglio nazionale americano, non si è fatta condizionare.
Anche il Globe and Mail, sebbene in maniera più signorile, non risparmia critiche al neopresidente: "Donald Trump’s inauguration: ‘It’s going to be only America first’", è il titolo di apertura, seguito da due approfondimenti. Nel primo, un editoriale dal titolo "Keep calm and carry on, world", si sottolinea: "The election of Donald Trump has been an agonizing experience. America’s friends have been dumbfounded by Mr. Trump’s alliances, temperament and policy utterances. There is good reason to fear the worst, having seen and heard the kind of man he is". Nel secondo, "Donald Trump: Our anti-American president", l'autrice, Sarah Kendzior, scrive: "What I didn’t see a year ago were the issues about which I worry most now: usurpation by a foreign dictatorship whose technological prowess outpaced our institutional response. The potential deployment of nuclear weapons, with which Mr. Trump has had a life-long fascination and has said he would use. The rise of neo-Nazis into the mainstream media, where they are instead called the “alt-right” and heralded for their fashion sense. An international cadre of billionaire kleptocrats, backed by the Kremlin but rising all over the West, whose combined power is little match for democratic entities weakened through war and recession and vulnerable to online propaganda".
Chiudiamo con l'unico giornale che, senza gloria, per lo meno, prende atto della realtà nuda e cruda. E' il Sun, che difatti viene considerato il giornale più 'a destra' del mondo media canadese. Il titolo dell'editoriale è chiaro: "Call him what you want, but Trump is now called Mr. President". All'interno si legge: "Pay no attention to that scruffy-looking man standing on the corner with the sandwich board proclaiming, “The end is nigh. He’s nothing more than the liberal elite in disguise. He represents the sore losers from the Democratic side, the socialists who have overtaken academia, the Tinseltowners whose white-picket fences are too high for them to see the real world, and a media that overwhelmingly showed its left-wing colours and got angrier by the minute when ordinary Americans started paying them no heed. And, by the way, the man with the sandwich board? He’s wrong that the end is nigh. It has arrived".

lunedì 16 gennaio 2017

L'inspiegabile downgrade che DBRS ha rifilato all'Italia

Viene riprodotto di seguito per intero l'articolo che il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, ha pubblicato pochi giorni sul proprio quotidiano, e collegato all'agenzia di rating canadese DBRS.

Se pure il Canada ci dà mazzate

di Alessandro Sallusti

Quando si dice: piove sul bagnato. Ieri l'agenzia di rating canadese Dbrs, a noi sconosciuta, ha declassato l'Italia da «A» a «B» per via della sua instabilità politica.

E fino a qui nulla di grave, l'opinione pur rispettabile dei canadesi non può certo turbarci il sonno. Ma c'è l'inghippo. Dbrs è una delle quattro agenzie di rating che compongono, non ho idea per quale ragione, una sorta di tribunale internazionale della finanza. E una delle regole di questa «entità» è che se tutte e quattro le agenzie tolgono la «A» a un Paese, questi deve pagare dazio. Ebbene, i canadesi erano gli unici che fino a ieri mostravano fiducia nell'Italia, il che ci permetteva di evitare sanzioni. Ora non più, e la conseguenza è che, automaticamente, i nostri Bot vengono pagati meno agli istituti di credito che li hanno in pancia e che li danno in garanzia alla Banca Centrale in cambio di prestiti. Morale: in un sol colpo il sistema bancario italiano, già traballante se non peggio, ha perso trenta miliardi di liquidità.

Non so dire cosa ne sappiano i canadesi della nostra «stabilità politica» e se hanno chiaro che noi siamo un Paese instabile fin dalla fondazione, oltre 150 anni fa. Instabile, ma grande al punto di diventare la settima potenza economica mondiale - almeno finché abbiamo potuto fare di testa nostra, cioè allo sciagurato giorno in cui abbiamo firmato l'entrata nell'euro a condizioni capestro. So però che al tribunale di Trani è in corso un processo nel quale stanno emergendo tutte le schifezze che le «prestigiose» agenzie di rating hanno fatto nel 2011 per condizionare la politica italiana e far cadere con l'arma dello spread il legittimo governo Berlusconi.

Noi non saremo dei santi, ma quel «tribunale del rating» è sicuramente frequentato anche da mascalzoni, trafficoni, gente senza nome e volto al servizio di non si sa chi. Per intenderci, «esperti» che nel 2007 avevano garantito il mondo sulla solidità della Lehman Brothers, la banca americana che fallendo innescò la crisi nella quale ci troviamo. E poi la Fiat che rischia la crisi per le vendette tra Trump e Obama, i canadesi che ci danno una mazzata a freddo, la Germania che ci controlla i conti. Io non sono un esperto, ma qui o recuperiamo almeno in parte la sovranità oppure siamo fritti. Beati gli inglesi, che da quando se ne sono andati per i fatti loro hanno ripreso a crescere alla grande.

La stella di Justin Trudeau non brilla più

Justin Trudeau
Viene riprodotto di seguito per intero l'articolo che la giornalista Sara Gandolfi ha scritto su Il Corriede della Sera pochi giorni e relativo alla figura di Justin Trudeau.

Trudeau sull’elicottero di Aga Khan
La stella canadese non brilla più
A un anno dall’insediamento, il popolare premier è caduto sulla «buccia di banana» della trasparenza: vacanze gratis col miliardario, ai sostenitori offre cene a pagamento

di Sara Gandolfi

Era il principe della «political correctness», il premier più gagliardo di Instagram, il più sexy dello scenario geopolitico mondiale. Soprattutto, era l’uomo che aveva riportato il sonnacchioso, gelido e un po’ tedioso Canada sugli altari delle cronache internazionali. Invidiosi degli States? Vittime di un perenne complesso d’inferiorità nei confronti del vicino? Macché, «noi abbiamo Justin Trudeau», sillabavano i giovani da Vancouver a Halifax, il primo ministro più cool del pianeta (ancor più verso la fine del mandato Obama). Talmente sicuro di sé da potersi permettere di indossare una mega-corona di piume dei nativi indiani senza sentirsi né sembrare ridicolo.Era il principe della «political correctness», il premier più gagliardo di Instagram, il più sexy dello scenario geopolitico mondiale. Soprattutto, era l’uomo che aveva riportato il sonnacchioso, gelido e un po’ tedioso Canada sugli altari delle cronache internazionali. Invidiosi degli States? Vittime di un perenne complesso d’inferiorità nei confronti del vicino? Macché, «noi abbiamo Justin Trudeau», sillabavano i giovani da Vancouver a Halifax, il primo ministro più cool del pianeta (ancor più verso la fine del mandato Obama). Talmente sicuro di sé da potersi permettere di indossare una mega-corona di piume dei nativi indiani senza sentirsi né sembrare ridicolo.

Scandali
Ok, la luna di miele è finita, a poco più di un anno dall’insediamento del suo governo, nel novembre 2015. Il giovane, aitante, iperliberal Trudeau jr, l’erede che pareva aver già surclassato il padre, è caduto sulla classica buccia di banana. Anzi, su due. E guarda caso il piede in fallo l’ha messo proprio sul tema che aveva scelto come cavallo di battaglia: la trasparenza. Prima lo scandalo delle ospitate a pagamento per aiutare gli amici, ora il viaggio tropicale nell’eden di Karim Aga Khan, capo spirituale dei musulmani ismaeliti e stella del jet set. «Perché la vacanza del primo ministro è rimasta segreta?», chiede con ironia retorica Cole Burston sul quotidiano The Globe and Mail.

L’isola privata
Presto detto. In Canada vige una legge, introdotta proprio da Trudeau — il Conflict of interest act —, che vieta agli alti funzionari dello Stato di accettare passaggi aerei privati. Smentendo se stesso, Justin con famiglia e altri leader del Partito liberale ha raggiunto l’isola privata delle Bahamas a bordo di un elicottero dell’Aga Khan, amico miliardario di famiglia nonché capo di una Fondazione che dai governi canadesi negli ultimi anni (sia liberali che conservatori, a dire il vero) ha ricevuto fondi per centinaia di milioni di dollari. Per giorni l’entourage di Trudeau ha tenuta segreta la località dove aveva trascorso il Capodanno. Poi la notizia è esplosa come una bomba sui giornali. «Non ci vedo nulla di male, ma sarò lieto di rispondere a qualsiasi domanda delle autorità» ha detto, con inconsueto nervosismo, il premier venerdì dall’Ontario.

Il tour
È una delle tappe del suo tour attraverso il Canada, per il quale ha rinunciato a partecipare ad una «shooting opportunity» (tradotto, evento dove si va anche se non soprattutto per farsi fotografare) come il Word Economic Forum di Davos, oltre che all’insediamento di Donald Trump. Justin Trudeau voleva il bagno di folla. Invece, ora la Commissaria per le questioni etiche, Mary Dawson, sollecitata dal leader dell’opposizione, sta valutando se aprire un’inchiesta sui viaggi del premier oltre che sulle raccolte fondi organizzate dal suo Partito liberale. In quel caso, Trudeau è finito nel mirino per un evento difundraisinga casa di Benson Wong, presidente della Chinese Business Chamber of Commerce, cui parteciparono numerosi investitori per la non modica cifra di 1500 dollari a testa. Tra i presenti, anche il businessman Shenglin Xian che pochi mesi dopo ottenne il via libera da parte degli enti governativi alla sua banca, la Wealth One Bank of Canada.

La delusione di Jane Fonda
Come se non bastasse, si è unita al coro dei critici anche Jane Fonda, nota ambientalista. «Non innamoratevi dei liberali bellocci – ha ammonito l’attrice, indignata dall’approvazione di nuovi oleodotti –. Pensavamo tutti che fosse molto cool. Che delusione».