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sabato 1 giugno 2019

Cypress Hills Massacre, il 1° giugno 1873 fu strage indiana

Il luogo del massacro
In una giornata che vede gli Stati Uniti piangere l'ennesimo massacro di massa, la storia racconta che il 1° giugno è una data infausta anche per il Canada, che nel 1873 vide compiersi il massacro di Cypress Hills, avvenuto in quelli che, ai tempi, erano chiamati i Territori del Nord Ovest, corrispettivi dell'attuale Saskatchewan.
Almeno venti le vittime dello scontro a fuoco, che vide da una parte un gruppo di una decina di cacciatori di bisonti e venditori di whisky statunitensi e canadesi, dall'altra un piccolo gruppo di indiani Assiniboine. Sul campo, dopo lo scontro a fuoco, rimasero almeno venti 'nativi' e un 'bianco'.
La disputa era nata dal furto di alcuni cavalli subito dal gruppo di cacciatori e mercanti, guidati da Thomas W. Hardwick e John Evans, i quali immediatamente dettero la colpa dell'azione agli abitanti del vicino campo indiano.
Pur avendo avuto prove quasi certe dell'innocenza della tribù Assiniboine, il gruppo si diresse verso il campo, confortato dal fatto che, in effetti, era possibile che un singolo 'nativo' fosse responsabile del furto. Il capotribù, Little Soldier, respinse ogni accusa, e anzi offrì ai cacciatori due dei suoi cavalli migliori nell'attesa di del recupero dei capi spariti.
Non vi è certezza, né testimonianze affidabili, sul perché la situazione in breve degenerò. I fatti vollero che, mentre la discussione proseguiva e si faceva sempre più animata, il gruppo dei 'visi pallidi' si allontanò di poco dal campo per disporsi su una fila pronto a fare fuoco. Lo scontro che ne seguì ebbe conseguenze terrificanti per gli Assiniboine, peggio armati e alla mercé delle armi dei 'bianchi'
La vicenda legale che ne seguì ebbe scarso effetto, e nessuno dei cacciatori e dei commercianti di whisky soffrì alcuna pena detentiva. Nella memoria collettiva canadese questo fatto alimentò invece il sentimento anti-americano, sebbene del gruppo di 'bianchi' facessero parte anche diversi cittadini del Canada. A 'nord del confine' la sensazione fu che gli americani venissero a spadroneggiare e uccidere come meglio credevano, senza rispetto di regole o territori. Il Cypress Hills Massacre è solo uno tanti 'sgarbi' tra le due nazioni nordamericane, e sicuramente uno dei più gravi fatti legati al rapporto con i 'nativi' della storia del Canada.

Indigene scomparse e uccise, lo Star accusa il governo

Se non fosse che ormai il vecchio refrain del politically correct lo si è capito da anni, saremmo tentati di credere all'articolo pubblicato dal giornale canadese Star, intitolato "Il Canada ha consentito un genocidio - dice un rapporto sulle donne e ragazze indigene scomparse o assassinate".
Un titolo da brividi, raccolto direttamente dall'edizione di Vancouver, a firma di Jeremy Nuttall.
Nell'articolo vengono tirate in ballo in maniera piuttosto generica le istituzioni canadesi e la loro incapacità di ascoltare le 'necessità' degli indigeni (che poi sarebbero quelli che noi chiamiamo 'indiani').
La chiave dell'articolo ruoterebbe, secondo l'autore, attorno al concetto espresso in queste righe: "The resulting report — titled Reclaiming Power and Place — explores the systematic failures of Canada's institutions to protect Indigenous women as well as breaches of Indigenous rights that contribute to harm against them". In pratica, istituzioni cattive e incapaci di proteggere le popolazioni 'native'. Scorrendo l'articolo, ancora non si capisce quale sia il punto, perché e dove sia la relazione fra le sparizioni delle donne, gli omicidi e la violenza cui vengono sottoposte e le presunte 'colpe' del governo canadese. In un contesto, quello dei 'nativi' nordamericani, che vede, questo è certo, un'endemica percentuale di crimine vari compiuti dai pellerossa, e non certo per colpa del governo, ma per una cronica situazione di disagio, disoccupazione e alcolismo che ne minano molto speso il vivere quotidiano (chiedere in particolare ai cittadini del Manitoba).
La chiosa dell'articolo è però illuminante e tende a fare capire l'obiettivo del giornalista, che esprime chiaramente lo 'Star-pensiero', come sempre collegato a quella sinistra libertaria che serpeggia da sempre nell'ipocrita Canada degli elettori di Justin Trudeau: "Genocide is the sum of the social practices, assumptions and actions detailed within this report," reads the executive summary. "As many witnesses expressed, this country is at war, and Indigenous women, girls and 2SLGBTQQIA (two-spirit, lesbian, gay, bisexual, transgender, queer, questioning, intersex and asexual) people are under siege". Ecco il punto: ma quali donne scomparse o assassinate? Il vero motivo di tanta discriminazione è legato ai problemi di gay, lesbiche, trans e transgender, insomma, i cosiddetti 'diversi'. Ma cosa tutto questo c'entri con le sparizioni delle donne non è dato saperlo.

lunedì 25 giugno 2018

Giovane indiana massacrata e uccisa nel Manitoba

La vittima, Serena McKay
Tragedia nella tribù indiana della Sagkeeng First Nation, nel Manitoba, in una violenta rissa fra ragazze 'indigene', ovvero 'pellerossa'. In due, una 16enne e una 17enne, si sono avventate con calci e pugni contyro la 19enne Serena McKay.
Il massacro della giovane ragazzo è stato ripreso con dei cellulari e trasmesso in diretta su Facebook. Per la più giovane delle due ragazze incriminate, che ha ammesso la propria colpevolezza, la procura (la Corona, come si dice in Canada), ha richiesto una pena di sette anni di reclusione, mentre la difesa ha chiesto una condanna commisurata all'età minorenne, ovvero tre anni.
Le tre ragazze si trovavano insieme a una festa, nella quale avrebbero avuto un alterco. Colpita ripetutamente, la McKay sarebbe stata lasciata all'aperto, dove sarebbe poi morta di ipotermia.

sabato 31 marzo 2018

Indigeni canadesi, dal Papa nessuna scusa agli indiani

Papa Francesco
Papa Francesco non chiederà scusa a nome della Chiesa per le questioni legate alle scuole e agli indigeni in Canada. Il presidente della Conferenza Canadese dei Vescovi Cattolici, il Reverendo Lionel Gendron, ha inviato una lettera ai popoli indigeni in Canada nella quale indica che "Papa Francesco, dopo aver attentamente considerato l'invito" della Commissione per la verità e la riconciliazione, e dopo aver "discusso ampiamente della questione con i vescovi del Canada, ha deciso di non poter rispondere personalmente". E' quanto si legge in una nota della conferenza episcopale canadese.
Era stato lo stesso premier canadese Justin Trudeau, lo scorso maggio, in occasione della sua visita in Vaticano, a invitare il Papa a visitare il suo Paese e a portare le scuse per il ruolo della Chiesa cattolica nel sistema delle cosiddette Indian Residential School, una rete di scuole fondate dal governo canadese e amministrate dalle chiese cattoliche che rimuovevano i figli degli indigeni dalla loro cultura per assimilarli nella cultura dominante.
Scrivendo a nome dei vescovi cattolici del Canada, il presidente Gendron nella lettera riconosce la necessità di migliorare le relazioni con le popolazioni indigene. "Condividendo il vostro dolore, (il Papa, ndr) ha incoraggiato i vescovi a continuare a impegnarsi in un intenso lavoro di riconciliazione e solidarietà con le popolazioni indigene, e a collaborare in progetti concreti volti a migliorare la condizione dei primi popoli... In questo contesto, si può prendere in considerazione una futura visita papale in Canada, tenendo conto di tutte le circostanze, e compreso un incontro con le popolazioni indigene come massima priorità". "I vescovi del Canada sono ugualmente convinti - si legge ancora nella nota - della necessità primaria di un lavoro aggiuntivo da svolgere a livello più locale, in termini di incontri autentici che affrontino gli aiuti e le ferite, i sogni e le aspirazioni, i bisogni e le tradizioni delle popolazioni indigene". (fonte: ANSA)

martedì 27 marzo 2018

Trudeau e il ridicolo balletto delle scuse: ora tocca ai Tsilhqot'in

Justin Trudeau continua a scusarsi, e ormai il refrain sembra quello di un film comico. Il primo ministro canadese si è scusato con gli omosessuali, con le lesbiche, con le religioni che non siano la sua, con i 'diversamente bianchi', con gli ammalati e i penitenti, con i peccatori e i fumatori di marijuana. Ora il 'giovin politico' si genuflette di fronte all'ennesima minoranza, quella degli indiani, pardon 'aborigeni', perché sennò da queste parti si offendono.
Le scuse arrivano con un ritardo di circa 150 anni, e probabilmente non serviranno a molto, anzi, a nulla. Allora capitò che sei capi tribù Tsilhqot'in, correva il 1864, vennero chiamati a partecipare a ciò che vennero loro presentate come trattative di pace che poi finirono nella guerra di Chilcotin o massacro di Bute Inlet.
I capi indiani Furono invece accusati di avere ucciso 14 operai che lavoravano alla costruzione di una strada, vennero quindi processati, condannati e impiccati.
Cinque vennero giustiziati nell'insediamento di Quesnel, un sesto vicino a New Westminster, dopo avere cercato di offrire un indennizzo.
Il fatto è che gli indiani massacrarono effettivamente i 14 operai. Cui però Trudeau non ha chiesto scusa.

lunedì 8 gennaio 2018

Nomi indiani al posto di quelli ufficiali, la comica della nuova toponomastica canadese

Basta 23rd Avenue, ma l'impronunciabile Maskekosihk Trail
Si riproduce per intero un articolo tratto dal sito internet de Il Post, dedicato alla nuova toponomastica canadese e ai problemi sollevati dalle nuove proposte governative, tese a sostituire gli storici nomi franco-britannici con altri, trattati dalla tradizione indiana delle popolazioni 'native', una sorta di 'debito storico' che il governo di Justin Trudeau sente di dovere nei confronti degli aborigeni nordamericani.

La nuova toponomastica canadese 
In realtà è vecchia: negli ultimi anni molti nomi di strade e di luoghi sono stati cambiati con gli equivalenti delle popolazioni native

In Canada da anni si sostituiscono, o si provano a sostituire, toponimi di origine europea con parole o nomi delle etnie native canadesi. Lo si fa seguendo una raccomandazione della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite, che riconosce alle popolazioni native il diritto di conservare i propri nomi per indicare comunità ed elementi geografici. Nel 2017 più di 600 toponimi indigeni sono stati aggiunti ai registri nazionali, e oggi circa 30mila dei 350mila toponimi canadesi sono di origine indigena. Uno di questi è la stessa parola “Canada”, che nella lingua irochese significa “villaggio”.

Nel 2001 alcune località intorno a Ottawa – la capitale canadese, che prende il suo nome dall’etnia nativa canadese degli Odawa – furono accorpate alla città: si crearono così diverse situazioni di “doppioni”, strade che si chiamavano allo stesso modo e che da quel momento si ritrovarono nella stessa città. Sono circa 80, e da 15 anni si sta provando a cambiarne i nomi: ma spesso non è semplice, ha spiegato un articolo dell’Economist, perché molti residenti non sono d’accordo. Lo scorso novembre il comune ha per esempio rinominato una delle strade chiamate River Street con un nome alternativo, Onigam Street: “onigam” in algonchino significa “trasporto di merci”.

Un altro nome che ha creato delle dispute è stato Maskekosihk Trail (letteralmente “sentiero del popolo della terra della medicina”), scelto dal comune di Edmonton, il capoluogo della provincia dell’Alberta, per sostituire 23rd Avenue. Un consigliere comunale si è opposto alla decisione dicendo che il nuovo nome è più difficile da pronunciare del precedente: i rappresentanti dei Cree – la principale etnia nativa canadese – hanno risposto dicendo di aver dovuto «affrontare degli scioglilingua» sin dall’arrivo degli europei.

In alcuni casi i nomi non sono stati sostituiti, nonostante la volontà di farlo: quando la provincia dei Territori del Nord-Ovest si separò da quella di Nunavut nel 1999, fu proposto di cercarle un nome più breve. La seconda proposta che ricevette più voti fu “Bob”. Alla fine però non se ne fece nulla e il vecchio nome fu mantenuto. In un altro caso, nel 2015, tutti i nomi alternativi proposti per un fiume, il Mackenzie, sono stati accettati: ora lo si può chiamare Dehcho, Deho, Kuukpak, Nagwichoonjik o Grande Rivière. Hanno tutti lo stesso significato, cioè “grande fiume”.

I Nakoda, un’altra etnia nativa canadese, vorrebbero poi che la città di Calgary, la terza più grande del Canada, diventasse “Wichispa Oyade”, che significa “città dell’Elbow”, dal nome di uno dei tre fiumi che la attraversano. I Siksika invece vorrebbero che si chiamasse “Mohkinstsis-aka-piyosis”, che significa “molte case sul fiume Elbow”. L’amministrazione provinciale però non ha mai considerato di rinominare la città, il cui nome deriva da quello della baia di Calgary, in Scozia.

In alcuni casi, diversamente rispetto a quello di Calgary, le ragioni a favore della sostituzione di un toponimo sono legate a ciò che fece la persona da cui deriva. Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha per esempio cambiato il nome dell’edificio in cui si trova il suo ufficio, che era chiamato palazzo Hector-Louis Langevin, perché era il nome di un avvocato che provò a tagliare i legami tra i bambini nativi canadesi e le loro famiglie facendoli vivere nei convitti da lui fondati. Per una ragione simile, i gruppi che rappresentano i nativi canadesi vorrebbero cambiare nome al fiume Cornwallis, che si trova nella Nuova Scozia: il suo nome deriva infatti da quello di un governatore britannico che offriva delle ricompense a chi gli portava gli scalpi della tribù Mi’kmaq.

Una delle più recenti discussioni su questo tema riguarda Amherst Street, una strada di Montreal lunga 1,5 chilometri. Prende il suo nome da Jeffrey Amherst, un comandante dell’esercito britannico che a metà del 18esimo secolo combatté contro i popoli nativi alleati dei francesi, in quelli che oggi sono il Canada e gli Stati Uniti. Amherst chiamava i nativi americani «razza esecrabile» e diceva che avrebbero dovuto essere completamente sterminati. Per questo l’Amherst College del Massachusetts non riconosce più il comandante come propria mascotte, sebbene ne abbia mantenuto il nome. Montreal vuole fare lo stesso con la sua strada, ma per ora non ha ancora trovato un nome sostitutivo: una delle opzioni prese in considerazione è Pontiac, il nome di un capo Odawa che si ribellò contro Amherst.

lunedì 4 settembre 2017

L'arte del Nord America in mostra a Venezia

Si riporta integralmente, di seguito, l'articolo apparso su Artribune e scritto da Desirée Maida, relativo all'inaugurazione della mostra “Imago Mundi – Great and North” a Venezia.

La collezione Imago Mundi di Benetton sbarca a Venezia con una mostra sull’arte del Nord America
di Desirée Maida
È stata appena inaugurata a Palazzo Loredan “Imago Mundi – Great and North”, il progetto di arte contemporanea promosso da Luciano Benetton che questa volta vedrà protagonista l’arte del Nord America. Oltre 700 artisti in mostra raccontano le culture e i paesaggi dei popoli che vivono tra il Canada e gli Stati Uniti

Un mosaico, un mappamondo, sicuramente non una usuale collezione di opere d’arte, ma una poliedrica finestra che, attraverso i linguaggi di artisti di tutto il pianeta, restituisce una visione caleidoscopica delle culture di tanti paesi del mondo. È Imago Mundi, il progetto di arte contemporanea promosso da Luciano Benetton che da anni oramai coinvolge artisti provenienti da tutti i continenti, affermati ed emergenti: più di 20mila finora da oltre 140 paesi, che diventeranno 26mila entro la fine del 2017. Ognuno di questi artisti ha creato un lavoro la cui unica limitazione è il suo formato: una tela 10×12 cm, contribuendo così alla creazione di “un progetto culturale, democratico e globale che guarda alle nuove frontiere dell’arte in nome della coesistenza della diversità espressiva”, come spiega Benetton. Dopo aver toccato diverse città in Italia e nel mondo, come Roma, Napoli, Palermo, Torino, Dakar, New York, Vienna e Sarajevo per citarne alcune, in questi giorni Imago Mundi è approdata al Palazzo Loredan di Venezia, per un’esposizione dedicata all’America Settentrionale.
UNA MAPPATURA ARTISTICA DEL NORD AMERICA
Great and North è il titolo della mostra che coinvolge 759 artisti provenienti dal Canada Centro-Orientale, il Canada Occidentale e dalle comunità Inuit e di Indigeni nordamericani. Un mosaico visuale che restituisce il profilo dell’arte contemporanea di un territorio vasto e multiforme che, partendo dall’estremo Nord del Nunavut coperto di ghiacci, percorre le praterie assolate del Mid West, e dai picchi impervi delle Montagne Rocciose arriva fino alle coste del Pacifico, attraversando laghi, fiumi, tundra, foreste e metropoli. Alla diversità di paesaggi di questo percorso che tocca Canada e Stati Uniti, corrisponde la pluralità del tessuto artistico espresso in queste collezioni: agli Inuit del Canada settentrionale si affiancano i nativi degli Stati Uniti e gli artisti delle grandi città canadesi che per le loro opere hanno scelto colori a olio, acrilici, pastelli, ma anche pelle di foca, pietra saponaria, alabastro, chiodi e petali di rosa. Una pluralità artistica che è evidente simbolo dell’incontro tra diverse culture che oramai da secoli convivono nello stesso territorio. Il risultato è un affresco colorato di questo pezzo di mondo che oltre alla varietà di temi, estetiche, materiali e tecniche, offre anche spazio per la riflessione.

martedì 22 settembre 2015

Buffy Sainte-Marie, suo il miglior disco canadese 2015

Buffy Sainte-Marie
Buffy Sainte-Marie ha vinto l'edizione 2015 dei Polaris Music Prize, svoltasi a Toronto.
L'album "Power In the Blood" è stato infatti dichiarato miglior disco canadese del 2015.
Assieme alla vittoria, per la cantautrice canadese arrivano anche un assegno da 50mila dollari (ovviamente canadesi) e la possibilità di esibirsi assieme alla Toronto Symphony Orchestra.
Dietro di lei si sono classificati gli album "If You're Reading This It's Too Late", di Drake, e "Goon", di Tobias Jesso Jr.
La Sainte-Marie, 74 anni, è una aborigena (cioè, indiana) nata in una riserva Piapot nella Qu'Appelle valley (Saskatchewan, nel Canada centrale). Adottata dai coniugi Sainte-Marie, ha trascorso infanzia e adolescenza nel Maine.
Le sue canzoni hanno da sempre toccato i temi cari i diritti dei nativi americani.

giovedì 1 gennaio 2015

Capodanno a Toronto, Bollywood sbarca a Mississauga

Dall'Iran all'India, distanze infinite che in Canada si accorciano. E così, per il Capodanno, per passare dalla festa persiana a quella 'made in Bollywood' bastano pochi chilometri, ovvero partire da Toronto e dirigersi verso la National Banquet Hall di Mississauga, storico 'feudo' italiano.
In occasione delle festività di fine anno la struttura ha però cambiato musica e linguaggio, accogliendo il Bollywood New Years Eve Party, di cui sotto potete vedere il video di presentazione. Il Dinner & Dance Party ha visto la presenza, fra gli altri, di artisti come Saima Myssah Khan e Ryaan.