Il Canada "liberal" finisce nel mirino. La loro bandiera è l’accoglienza per tutti
Ogni anno 300.000 migranti e migliaia di profughi
di Sara Gandolfi
“Non esiste il canadese modello. Non c’è nulla di più assurdo della definizione “all Canadian”. Una società che enfatizza l’uniformità crea intolleranza e odio”. Con queste parole, l’8 ottobre 1971, il premier Pierre Trudeau spiegò perché aveva deciso di trasformare un concetto fino ad allora teorico — il multiculturalismo — in “politica ufficiale” del suo governo, e di tutti quelli che seguirono. Era la prima volta che il leader di uno Stato si impegnava formalmente a proteggere e promuovere la diversità, riconoscere i diritti delle popolazioni aborigene e sostenere l’uso del bilinguismo. Non fu una scelta “morale”, in realtà: il Partito liberale di Trudeau stava perdendo consensi in Québec, minacciato dal crescente sostegno al separatismo, e puntava a conquistare il voto delle comunità di “nuovi canadesi” in Ontario e British Columbia. Sta di fatto che la “diversità” è diventato un valore collettivo nel Paese delle Giubbe rosse.
Quarantacinque anni dopo, è toccato a un altro Trudeau, il figlio Justin, riportare in auge un principio che con il tempo sembrava essersi appannato. Il 27 giugno scorso, il giovane premier ha messo nero su bianco la filosofia nazionale, con una dichiarazione che sembra la continuazione di quella del padre: “Il multiculturalismo è la nostra forza, sinonimo di Canada quanto lo è la foglia di acero. Qualsiasi sia la nostra religione, il luogo in cui siamo nati, il colore della nostra pelle o la lingua che parliamo, siamo tutti cittadini uguali di questo grande Paese. Le nostre radici raggiungono ogni angolo del pianeta”.
Il tweet del premier Porte aperte “a chi fugge persecuzione, terrore e guerra, a prescindere dalla fede”
I numeri confermano. Un quinto dei canadesi è nato all’estero. Nelle principali città, da Toronto a Vancouver, quasi metà della popolazione è formata da minoranze. Eppure è difficile trovare sacche di segregazione come quelle presenti in tante periferie europee o statunitensi. La parola d’ordine è: integrazione. Ed è il più grande successo della politica di Ottawa. In un Paese in cui il ministro dell’Immigrazione, Ahmed Hussen, è di origine somala — e garantisce permessi di residenza temporanei a chi viene respinto dagli Usa di Trump — e le partite di hockey vengono trasmesse regolarmente in Punjabi oltre che in francese e in inglese, fino ad oggi nessuno si è mai sentito davvero straniero.
La politica d’inclusione di Trudeau jr ha ricevuto il plauso dell’Economist: “Oggi, nella sua solitaria difesa dei valori liberali, il Canada sembra veramente eroico”, ha scritto il settimanale. Una “fortezza di decenza, tolleranza e buon senso” che ogni anno, da un ventennio, apre le porte a 300.000 migranti, circa l’1% della popolazione (nel 2016 sono arrivati anche 46.000 profughi, in gran parte siriani) e offre ai nuovi arrivati una rete di “sponsor privati”, cittadini che si prendono la responsabilità di aiutarli durante il loro primo anno nel Paese.
La distanza che separa il Canada dagli Stati Uniti (ma anche dall’Europa della Brexit e del nazionalpopulismo) non è forse mai stata così ampia. “Siamo i campioni solitari del multiculturalismo tra le democrazie occidentali”, dice Stephen Marche, scrittore ed opinionista canadese. “Questa solitudine ci accompagnerà nei mesi e negli anni a venire, forse per sempre”. Trudeau lo sa e ne sta facendo il perno della sua politica: “A chi sta fuggendo persecuzione, terrore e guerra... i canadesi vi daranno il benvenuto, a prescindere dalla vostra fede”, ha twittato dopo l’altolà di Trump.